Increspature tra accettazione e negazione della morte

Molto è stato scritto sulle ambivalenze del rapporto con la morte in Italia, ma

gli studi sistematici di cui disponevamo erano finora scarsi. La ricerca nazionale “La morte e il morire in Italia” (2022), che ha coinvolto sei università italiane, ci aiuta a colmare questa lacuna, offrendoci dati statisticamente solidi e un numero consistente di interviste qualitative, che permettono di indagare in profondità il modo in cui le persone si confrontano con il fine vita. Questo progetto di ricerca è stato finanziato dal MIUR ed è stato sostenuto anche da SOCREM Torino, grazie al cofinanziamento di un assegno di ricerca annuale.


di Nicoletta Bosco, sociologa

Più di un secolo fa, il sociologo Robert Hertz sosteneva che “ognuno di noi crede di sapere in un modo sufficiente che cosa sia la morte, perché si tratta di un avvenimento che ci è familiare e perché fa nascere dentro di noi emozioni intense” [1]. L’idea di una presunta e diffusa consapevolezza della morte e delle sue implicazioni non sembra però caratterizzare solo il passato e, quando la pandemia irrompe nelle nostre vite, diventa evidente una volta di più come presunta accettazione e negazione non rappresentino che due polarità di vissuti ed esperienze assai più eterogenei. Le circostanze che hanno preso forma nel periodo pandemico sembrano dunque mostrare la persistenza delle ambivalenze in questione, con un aumento da un lato del bisogno di condivisione indotto dalla forzata assenza di ritualità e una contemporanea presenza di fenomeni di negazione degli avvenimenti, ad esempio in relazione all’esistenza del virus e dei rischi a questo associati o della necessità dei vaccini.

Ma cosa sappiamo in realtà dei vissuti della popolazione italiana circa la morte e il morire e cosa è cambiato nel corso della pandemia? Se a proposito del periodo pandemico la riflessione è ovviamente in corso, alcune indicazioni sulle ambivalenze che accompagnano nel tempo gli atteggiamenti, i comportamenti, le credenze e i rituali della popolazione italiana emergono da un lavoro di ricerca concluso nel 2018 e recentemente pubblicato. La ricerca dal titolo La morte e il morire in Italia (2022), coordinata a livello nazionale da Asher Colombo con la partecipazione di sei gruppi in altrettante università del paese, parte dall’obiettivo di colmare la mancanza di studi sistematici sul tema in Italia indagando, tra gli altri, le credenze degli italiani sulla morte e sull’aldilà̀, i comportamenti, le pratiche e i rituali in occasione della morte di una persona cara, le forme più o meno tradizionali di elaborazione del lutto, il significato e l’importanza attribuita ai riti funebri, la memoria e le forme di relazione che i sopravvissuti stabiliscono con i morti. La ricerca in questione ha consentito di raccogliere una consistente e solida documentazione empirica attraverso una rilevazione campionaria rappresentativa della popolazione italiana a cui si sono aggiunte circa 450 interviste in profondità, per indagare più a fondo questi aspetti attraverso i racconti dei partecipanti.

I risultati mostrano, oltre ad una diffusa paura della morte (46%), numerosi segnali di una sua altrettanto diffusa rimozione: il 76% della popolazione non ha mai pensato alla possibilità di fare testamento, né alla necessità di comunicare a qualcuno dove trovare i documenti importanti (70%), o a chi affidare la cura dei propri cari (79%) nel caso non ci trovasse più nella condizione di poterlo fare in prima persona. Inoltre, nonostante i cambiamenti normativi che ne riconoscono la possibilità attraverso le cosiddette disposizioni anticipate di trattamento (DAT), il 69% della popolazione non ha mai pensato alla possibilità di esprimere le proprie volontà sui trattamenti medici o sulla donazione degli organi (62%).

In aggiunta agli aspetti individuali, dalle parole degli intervistati emerge la difficoltà di una vicinanza effettiva con i dolenti nel più ampio contesto sociale, spesso limitata a consuetudini e regole, difficilmente accompagnata da azioni in grado di supportare, contenere e lenire il dolore. Sempre meno consueti sono i segnali che rendono la condizione di chi sta vivendo un lutto percepibile all’esterno e poche le pratiche che si protraggono nel tempo o che si ritiene di dover adottare in nome della tradizione (in relazione all’abbigliamento, al consumo di cibo o alla partecipazione alla vita sociale). Se il venir meno di prescrizioni vincolanti nel periodo del lutto consente spazi di libertà non previsti né permessi in fasi storiche o contesti più tradizionali, la perdita di questi stessi elementi comporta però un costo altrettanto rilevante, relativo all’assenza di riconoscimento pubblico del dolore e del tempo necessario per affrontarlo. Il peso – seppure a volte opprimente della dimensione collettiva – e il prezzo della sua assenza è d’altra parte diventato drammaticamente evidente nell’impossibilità di condividere riti e commemorazioni lungo tutto il corso della pandemia.

In generale, dunque, l’esperienza della perdita appare sempre più relegata alla dimensione privata e intima e trova limitate occasioni di visibilità e di condivisione nel contesto più ampio in cui i dolenti sono inseriti, con forti differenze nei vissuti degli intervistati, ad esempio in relazione al tempo di elaborazione del lutto. Un intervistato racconta della morte del padre avvenuta sette anni prima:

Mio padre è morto nel 2011. Da poco insomma. Da pochissimo.

Un’altra intervistata evidenzia una percezione assai diversa del trascorrere del tempo:

Io sono stata a lutto, senza soluzione di continuità, per 4-5 anni. Ho fatto una fatica enorme a elaborare la morte di mio padre. Una fatica enorme. Un tempo infinito.

In aggiunta alle differenze individuali, colpisce la distanza tra il tempo del lutto ritenuto necessario dal/dalla dolente e quello riconosciuto come legittimo, ad esempio nei luoghi di lavoro o nella cerchia meno stretta dei conoscenti. Come racconta un’intervistata:

Ho avuto una grande disponibilità della mia azienda, nel periodo della gestione della malattia […]. Dopo la morte no. Dopo che una persona muore […] ti si concede qualche giorno, un po’ di… défaillance […] Dopo che torni a lavorare, dopo qualche giorno, nessuno si ricorda più, o fa finta di non ricordarsi più, o non dà importanza alla cosa.

Persistenze e cambiamenti in relazione a comportamenti e vissuti non possono, in conclusione, che sollecitare la riflessività attraverso la messa a punto di ulteriori pratiche di ricerca per monitorarne nel tempo l’andamento.

 

[1] Hertz R., Contribution à une étude sur la répresentation de la mort, 1905, 4.

Articolo pubblicato su SOCREM News 1/2023