Le parole per parlare della fine

Affrontare il tema della morte nel ciclo di vita

di Caterina Di Chio


Il diniego e la rimozione della morte

Prima della pandemia da Covid-19, ci si era abituati a veder trattata la morte come un evento collocato in un futuro lontano e confinato in luoghi appositamente generati per occuparsene: ospedali, case di cura, hospice. Ce ne occupavamo solitamente, con amarezza e dolore, quando qualcuno a noi vicino ne veniva inaspettatamente coinvolto. O ancora, quando veniva comunicata personalmente la previsione della possibile o certa esperienza di morte. In queste occasioni, accadeva di ristabilire un contatto con un evento naturale della vita umana, da cui abitualmente si cercava però di rimanere distanti. Se ritorniamo ancora più indietro, molti di noi sanno dai racconti dei genitori o dei nonni, che alla morte di una persona in famiglia si era insieme nella stessa casa e tutti, bambini compresi, partecipavano ai riti di congedo. Si condivideva il dolore e ci si sentiva uniti e sostenuti nell’attraversare i sentimenti della perdita. Nella giornata del 2 novembre, la comunità si ritrovava nei viali del camposanto che diventava un luogo di incontro non temuto ma accolto nell’esperienza della vita. L’atteggiamento nei confronti della morte è profondamente cambiato: spesso, quando le persone diventano anziane e si avvicinano alla fine della loro vita, ricorriamo alle case di cura, agli ospedali, alle strutture tecniche che le allontanano anche dalla quotidianità delle case e dalla vista di chi popola le strade. Se il nonno muore, mancano le parole per dirlo e non di rado si evita di portare i bambini al funerale. Quando qualcuno si avvicina al morire, talvolta non gli si dice cosa sta accadendo e chi gli sta intorno finge non stia capitando. Stare accanto a chi si prepara alla fine può essere difficile, in quanto specchio di un’esperienza spaventante che potrebbe toccare anche chi ne è testimone e imporgli di confrontarsi personalmente con la propria morte. La sofferenza e la fragilità, prima di marzo 2020, sembravano essere stati forzosamente cancellate dall’immaginario di molti, almeno di molti occidentali. Si preferiva mantenere la malattia e la morte, (ma anche la sconfitta e la debolezza), avvolte da una cortina di silenzio che consentisse di non entrare in contatto con i vissuti che scaturiscono da queste vicende umane. Si cercava di considerarle altro da sé. La difficoltà di guardare in faccia la realtà della nostra e altrui sofferenza esita spesso in meccanismi di diniego e di rifiuto di ciò che, se aprissimo gli occhi, risulterebbe evidente, anche solo per il fatto che il miglioramento delle conoscenze scientifiche e dei trattamenti sanitari hanno delineato scenari di cronicizzazione della malattia. La pandemia poi ha certamente restituito alla morte la dimensione pubblica che in Occidente le era stata a lungo sottratta. Tutti si sono confrontati con la paura di ammalarsi e di morire, e molti con il dolore della perdita, spesso senza poter stare accanto, salutare, e accompagnare alla sepoltura il proprio caro. Prima del 2020 eravamo immersi in un clima dicotomico intorno alla morte: rimossa dalle esistenze ordinarie, eppure continuamente presente nel mondo mediatico. Nei film, nei videogiochi, nei telegiornali stessi, le notizie e le rappresentazioni di morte non ci toccano realmente, sembrano non riguardarci. Desensibilizzati dalla presenza dello schermo, che non richiede di entrare in empatia con l’altro, le tragedie del mondo ci appaiono lontane e sembrano coinvolgere altri. Con la pandemia la morte, vicina a tutti noi, è tornata ad essere un’esperienza che tocca affetti profondi, che pone limiti e che restituisce la consapevolezza del termine dell’esistenza.

Silenzi assordanti e rumore di fondo

Far finta che la morte non esista, voltarsi dall’altra parte, chiudere in un cassetto la verità della finitudine, fingendo che non ci riguardi, è una strategia destinata a rivelarsi non efficace. Tutti abbiamo paura della morte: alcuni avvertono la paura come un rumore intenso, quasi assordante, che impedisce di abbandonarsi al vivere e di godersi la vita per il timore che accada qualcosa di spiacevole. Altri la percepiscono come un fruscio appena udibile, ma comunque presente: sentono un’inquietudine generalizzata che si nasconde e si deposita talvolta in un sintomo apparentemente estraneo, che sembra non avere nulla a che fare con la mortalità: ad esempio in rituali protettivi di cui la persona non riesce a fare a meno. Ognuno di noi sviluppa modi per non rimanere congelato di fronte alla paura della fine: alcuni più funzionali (abbracciare la fede, proiettarsi nel futuro attraverso scelte generative, di genitorialità ma anche di progettualità creative), altre più illusorie (diventare più ricchi e potenti, gettarsi in attività frenetiche per non pensare al trascorrere del tempo o in esperienze rischiose per sentirsi invincibili). Chi ha avuto la fortuna di trovare, nella propria casa d’origine, un luogo dove essere accolto e amato nella sicurezza, più facilmente può intraprendere la strada della consapevolezza, che porta ad accogliere e incontrare la verità della finitudine in modo autentico e non angosciante. Ma, come tutte le strade, anche chi non avesse ricevuto una “coperta calda” capace di avvolgere e contenere le paure fin da bambino, può imparare gradualmente a confrontarsi con la perdita in modo più stabile e maturo ma, soprattutto, a riflettere sulla vita. Come è accaduto ad alcuni in tempo di pandemia, o dopo esperienze di confronto con la malattia e con la morte, si può imparare ad apprezzare di più anche le abitudini più elementari, a valorizzare le relazioni significative, a discriminare le proprie azioni in modo sintonico all’autorealizzazione, avendo meno timore di assumersi rischi e responsabilità.


Perché fissare il sole? Perché dialogare di morte e di scelte di fine vita?

Come ha efficacemente descritto Yalom nel suo libro “Fissando il sole”, non è possibile vivere ogni istante della propria vita consapevoli di dover morire. Sarebbe, spiega, come fissare direttamente il sole: si riuscirebbe a sopportarlo per poco. Perché allora l’esperienza del fine vita dovrebbe essere accolta all’interno della propria esistenza e annoverata tra i pensieri da avvicinare? E come è possibile che ciò accada senza che gli occhi risentano della luce accecante, per continuare a stare nella metafora proposta da Yalom? Intanto perché non è sufficiente cercare di distogliere lo sguardo e sforzarsi di portarlo altrove per dimenticarsi della sua presenza. Ma ancora più significativamente, perché scegliere di abbracciare l’idea della morte consente di condurre una vita più piena e consapevole. La morte può attribuire senso alla vita: può orientare le azioni, non in una serie affastellata e affannata di movimenti per evitarla, bensì in coerenza col significato profondo e autentico dato alla propria vita. Gli umani non sono fatti solo di sensazioni fisiche e di emozioni: come ci indica la teoria del cervello tripartito di McLean, per stare bene necessitano di integrare entrambe con i significati e le narrazioni capaci di dare senso a quanto esperito. Vivere con la coscienza del morire rappresenta un invito ad autorealizzarsi, senza soffocare aspetti di sé essenziali per dare voce alla propria essenza. La sensazione di appagamento e di realizzazione dei nostri desideri più veri consente di accettare serenamente che il tempo trascorra. La consapevolezza della morte, ancora, valorizza le connessioni interpersonali, perché ci suggerisce chi sono le persone che contano, quelle con cui desideriamo condividere il senso della nostra esistenza, creare legami importanti e attraversare i momenti piacevoli come quelli dolorosi. L’altro è anche colui nel quale restano parti di noi dopo di noi, che potrà continuare a diffondere ciò che abbiamo contribuito a creare e le tracce che abbiamo lasciato. Con la metafora dei cerchi concentrici in uno stagno, i quali continuano a propagarsi fintanto che non sono più visibili, Yalom ricorda an­che che gli effetti di ciò che siamo e della nostra influenza sull’altro (anche attraverso piccoli gesti, virtù, atteggiamenti, modi di fare), permangono nel tempo e si trasmettono alle generazioni successive. Un’immagine che ci consola dalla temporaneità, ricordandoci che qualcosa di noi persiste oltre noi e che, al contempo, ci responsabilizza sollecitandoci a scegliere ciò che di noi vorremmo fosse ricordato e presente dopo la nostra morte.

Scegliere consapevolmente e autodeterminarsi

Accogliere e integrare la morte nella propria vita, significa dunque compiere delle scelte. Scegliere le priorità di vita, le persone e le esperienze davvero importanti, scegliere come autorealizzarsi, quale senso dare alla propria esistenza. Può voler dire anche, dopo essere stati adeguatamente informati, compiere scelte relative al fine vita, a partire da quali trattamenti sanitari si intende accettare e quali invece rifiutare. Ogni scelta implica una perdita, perché esclude altre possibilità. Scegliere vuol dire assumersi la responsabilità di dire un sì e, al contempo, di dire anche alcuni no, rinunciando a qualcosa. Quando si parla di scelte di fine vita, non si può fare a meno di riferirsi al concetto di dignità. In questo contesto, intenderemo il termine dignità come l’esito del profondo rispetto che andrebbe rivolto alla persona in quanto soggetto capace di compiere scelte personali e di tracciare i contorni della sua stessa dignità. Quando ci si ammala o ci si avvicina al morire, si ha l’intimo diritto a essere informati, coinvolti nelle decisioni e, qualora non più possibile, a ricevere solo gli interventi terapeutici coerenti con la propria volontà, oltre che con il proprio interesse. Considerando la persona protagonista della sua vita, si rispettano i limiti oltre i quali non ritiene dignitoso o conveniente spingersi. La fine, in questo senso, assume anche le sembianze di un “confine” che delimita la vita, ma anche la tolleranza alla sofferenza. Dal momento che la sofferenza e il dolore non hanno connotati oggettivi, il medico ha un compito delicato e complesso: mettere a disposizione del paziente le sue conoscenze scientifiche e cliniche, con l’obiettivo di ristabilire condizioni accettabili di salute e una qualità della vita accettabile per lui. A guidare le scelte sul fine vita, più che ragionamenti logici, sono i valori di riferimento (la fede, l’intima esperienza di dignità), i mandati più o meno espliciti intorno alla cura e alla morte, trasmessi dalle generazioni precedenti (genitori, nonni ecc), le storie di malattia e di lutto vissute in famiglia, la qualità delle relazioni con i medici e con le strutture di cura a cui si è fatto ricorso e, naturalmente, le emozioni.
Le Disposizioni Anticipate di Trattamento contemplano la futura incapacità di autodeterminarsi e offrono la possibilità di scegliere, esprimendo in anticipo le proprie volontà sui trattamenti desiderati e quelli non desiderati. Per qualcuno potrebbe essere rassicurante non sentirsi in balia delle opzioni che altri potrebbero valutare giuste per lui e poter contenere il senso di impotenza di fronte al quale la malattia, lo stato di incapacità e il timore di una sofferenza prolungata possono gettare. Sapere di avere depositato le proprie volontà può alleggerire dalla preoccupazione che le persone amate debbano farsene carico in propria vece. Diversamente a quanto spesso la psicologia invita a fare (anche per contenere l’angoscia di morte), ovvero concentrarsi nel presente, nel qui ed ora delle circostanze presenti, le DAT richiedono di fare previsioni su un futuro in alcuni casi solo ipotetico e possibile, in altri probabile, ma chiaramente non del tutto preventivabile. Potendole rinnovare, revocare o modificare in qualsiasi momento, le DAT richiedono alla persona di indicare le sue disposizioni secondo la volontà e la coscienza del momento, rituffandosi nel qui ed ora delle esperienze presenti con maggiore leggerezza, sapendo di poter cambiare le proprie decisioni in qualsiasi momento, per come si dovessero evolvere la coscienza individuale, oltre che le conoscenze mediche e i trattamenti disponibili. Nelle scelte di fine vita non si può prescindere dalla relazione e dall’incontro con l’altro: con un medico capace di offrire alla persona le informazioni necessarie per scegliere e di accompagnarlo nelle decisioni; con i familiari disponibili a dialogare con la persona che si approssima al morire e sostenerla; col fiduciario indicato nelle DAT, una persona a cui il soggetto decide di affidare le sue volontà. In conclusione, l’invito non è a fissare il sole, ma a esporsi al suo calore con le necessarie protezioni, per trarne vantaggio e beneficio. Non potendo evitare di fare i conti con il limite, possiamo esercitare la libertà di scegliere quale atteggiamento adottare nei confronti di tale limite e incrementare il senso di padronanza che, all’interno di un perimetro di non completa prevedibilità e controllo, possiamo esercitare responsabilmente.