L’ultimo addio di un lungo amore

La morte degli animali a cui siamo affezionati è un lutto difficile da elaborare.
Nella cremazione il rito ci aiuta a lenire il dolore

articolo di Carlo Giraudo tratto da SOCREM News ed. maggio 2021

Ci guardano, li guardiamo. Ci aspettano, li aspettiamo.
Ci chiamano, li chiamiamo.
Si strusciano, si lanciano, si accucciano, abbaiano, corrono, miagolano, scappano, nitriscono, scavano e rovistano, graffiano, leccano, gioiscono e piangono.
Ci amano, li amiamo. Però come ci amano?

Ognuno ha il suo modo, la sua indole, la sua individualità ed il suo specifico carattere. Quale mistero
si cela nel rapporto con i nostri animali? È vero affetto o solo istinto, solo la proiezione che facciamo, dei nostri bisogni su di loro?
Lasciamo la risposta agli psicologi e ai veterinari comportamentalisti, a noi basta riconoscere che quello
che ci danno è molto più di una illusione.
Innumerevoli sarebbero le citazioni che la letteratura offre per celebrare il rapporto tra l’uomo ed il
cane, il gatto, il cavallo, il colombo, il corvo, il delfino…

Antesignana tra tutte è la figura del cane Argo, nel libro XVII dell’Odissea. Il cane fedele di Ulisse che attende per anni l’amato padrone e, alla sua vista, muore dalla contentezza:

Là giaceva il cane  Argo, pieno di zecche. Quando sentì vicino il padrone Odisseo, mosse la coda, abbassò le orecchie, ma non poté più corrergli incontro. Il padrone allora gli si avvicinò e s’asciugò una lacrima…
(Odissea, XVII, v. 300-304).

Ulisse pianse e le sue lacrime si fissarono come archetipo immortale di tutto l’affetto che gli umani portano ai cari animali a loro legati.

Come questo legame si compia è oggetto delle liriche più profonde.

Andiamo, uomo e cane, uniti nel verde mattino, dall’eccitante solitudine…
la felicità di essere uomo e cane trasformata in un solo essere
(Pablo Neruda, Ode al cane).

GattoMaestro che stai lì, immobile.
Lo sguardo teso ad un oltre invisibile…
Il mio cuore guarisce, grazie a te
(M.G. Piccolo, Il mio gatto)

L’affetto che ci lega a loro non è un abito che una volta usato si dismette, una stagione che si archivia, un’esperienza che solo si può ricordare. È qualcosa che ci rimane dentro, che ci costituisce, che fa parte di noi per sempre. Per questo è difficile “lasciarli andare”, quando il tempo per loro scandisce il suo termine. È difficile sguinzagliarli per sempre in un luogo che vogliamo immaginare felice ed infinito.

Giunti alle porte del Paradiso, tutti noi avremo modo di scoprire che là vicino esiste anche un altro luogo meraviglioso, con verdi prati, alberi, colline…
In questo incredibile spazio continueranno a correre e giocare, loro, i nostri amici speciali, che hanno vissuto al nostro fianco e che mai dimenticheremo…” (M. Valletti Ghezzi, La leggenda del ponte).

Non ci risulta così fuori luogo, allora, una delle ultime battute del film “Pane, amore e gelosia” di Luigi Comencini, dove la Bersagliera, interpretata da Gina Lollobrigida, dice al suo asinello morente: “Coraggio, che te ne va’… dritto in Paradiso!”.

I nostri amici non parlano, non sanno cosa siano ragionamenti e concetti, eppure insegnano, continuamente, silenziosamente; ci spiegano tante cose col loro modo essenziale e profondo di vivere, di
essere “contenti” di vivere.
Hanno “il senso del tempo”, per esempio, come noi non abbiamo. Sanno attraversarlo con una compostezza, con una saggezza a noi spesso lontana. Sembrano conoscere un segreto a noi celato.
Sembrano accettare meglio di noi l’ordine naturale della vita, incardinata da sempre tra nascita e morte.

Sì, anche nella morte ci danno il loro insegnamento. Per questo, al momento della loro “partenza”,
sentiamo l’esigenza di celebrare con un momento rituale questi significati. Il collare, il guinzaglio, la
palla spelacchiata che li faceva correre a perdifiato, diventano simboli, segni di un vissuto che resta
in noi come eredità di affetto e di conoscenza. La cremazione ci offre un’opportunità in più,
cioè quella di conservare le loro ceneri in un cimitero per animali oppure a casa.

È una possibilità che ci permette di avere un luogo di memoria, di continuare a sentirli vicini, di proseguire un “dialogo vitale” non fatto di parole.